Il demansionamento senza
mobbing legittima il danno biologico
Con la sentenza n.22635 del 5 novembre 2015, la Corte di Cassazione
chiarisce, sotto il duplice profilo sostanziale e processuale, il rapporto tra
la domanda giudiziale di accertamento del mobbing e quella di demansionamento.
Sul caso in esame, nel precedente grado di giudizio, la Corte d’Appello di
Caltanissetta, aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno
biologico e da perdita di professionalità in favore di un dipendente che, in
ragione di alcune assenze da lavoro, si era trovato inattivo per un
apprezzabile periodo di tempo. La
Corte d’Appello aveva escluso che la condotta della società
integrasse gli estremi del mobbing su cui si fondava la domanda del lavoratore.
Sul caso, si è espressa la
Suprema Corte che ha confermato il ragionamento della Corte
d’Appello. I giudici hanno evidenziato che il mobbing va riconosciuto in tutti
quei casi in cui il datore ponga in essere atti o comportamenti vessatori
protratti nel tempo nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del
gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento
di persecuzione ed emarginazione finalizzato a escludere il lavoratore dal
gruppo. La Cassazione
ha sottolineato che il mobbing è una figura complessa e ha, pertanto, elencato
tutte le condizioni che presuppongono una situazione “mobbizzante”.
In secondo luogo, la Cassazione ha confermato la pronuncia della
Corte d’appello nella parte in cui ha ritenuto che nella domanda di
risarcimento dei danni può ritenersi compresa anche quella di minor portata di
dequalificazione professionale, quale conseguenza dell’inattività o della
scarsa utilizzazione del lavoratore volutamente decisa dal datore. Una volta
esclusa la natura della condotta, la Cassazione ha giudicato valida la decisione della
Corte d’Appello di esaminare la domanda anche sotto il profilo della violazione
degli obblighi dal datore di lavoro ai sensi dell’articolo 2103 del codice
civile.
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