venerdì 27 maggio 2016


Se il lavoratore comunica l’assenza in ritardo


 




 

Ritardo di oltre un’ora rispetto all’orario di ingresso nella comunicazione del lavoratore all’azienda: giustificata la sanzione disciplinare.



Che succede se il lavoratore comunica l’assenza dal lavoro dopo che è già scoccato l’orario di entrata? Si tratta di certo di un illecito disciplinare, dice la Cassazione con una recente sentenza [1], tuttavia non particolarmente grave quando la comunicazione avviene, comunque, in tempi relativamente brevi: ad esempio, se il dipendente fa sapere, nell’arco dello stesso giorno, la propria indisponibilità al lavoro rischia, tutt’al più, la sanzione del rimprovero scritto (nel caso di specie, il lavoratore aveva comunicato la sua assenza dopo poco più di un’ora dall’orario di entrata).

Tale sanzione è stata ritenuta, dalla Suprema Corte, congrua rispetto all’illecito; difatti la legge stabilisce che, per il legittimo esercizio del potere disciplinare, è sempre necessario che vi sia proporzionalità tra infrazione commessa e contestata al lavoratore e sanzione irrogata dal datore di lavoro.

 In generale l’impossibilità di recarsi al lavoro deve essere comunicata tempestivamente all’azienda e, comunque, prima del termine dell’inizio della prestazione lavorativa (ossia l’orario di entrata in ufficio). Se così non dovesse essere, ai fini della gravità del comportamento bisognerà valutare il tempo che il dipendente ha impiegato a sanare la dimenticanza: si passa da un ritardo di un’ora (nel migliore dei casi) all’omissione della comunicazione (nei casi più gravi, il che potrebbe costare anche il licenziamento se l’azienda ne ha subito un danno particolarmente grave).


 Il controllo dell’azienda sull’orario di lavoro

Il datore di lavoro può controllare il rispetto dell’orario di lavoro tramite sistemi di rilevazione delle presenze come il badge. Il dipendente che ritardi anche pochi minuti rispetto all’orario di ingresso deve comunicarlo tempestivamente al datore, per cui può essere licenziato qualora il dipendente si faccia timbrare il cartellino dal collega per rispettare i tempi di entrata sul lavoro.
Secondo infatti una sentenza di ieri della Cassazione [2], tale comportamento – anche se isolato e posto in essere una sola volta – è caratterizzato, in sé e per sé, da particolare gravità, a prescindere dalla ripercussioni sull’azienda; il che giustifica il recesso immediato e senza preavviso dal rapporto di lavoro.


La comunicazione della malattia

Non molto diverso dal semplice ritardo è il caso di malattia che renda del tutto impossibile l’entrata sul lavoro. In tal caso, Il lavoratore deve comunicare tempestivamente al datore di lavoro la propria assenza per malattia e l’indirizzo di reperibilità, se diverso dalla residenza o domicilio abituale, per rendere possibili i successivi controlli medici.

L’obbligo della comunicazione è distinto, e in genere preventivo, rispetto all’invio della certificazione da parte del medico. La comunicazione serve, infatti, a giustificare l’assenza dal lavoro; la certificazione è invece finalizzata a dimostrare l’esistenza della causa giustificativa.

 

Il procedimento disciplinare in caso di ritardo

Nel caso in cui il lavoratore non osservi tali regole (anche, quindi, nel caso di ritardo comunicato non tempestivamente), il datore di lavoro deve avviare il procedimento di contestazione dell’illecito disciplinare che così si struttura:

  •  comunicazione per iscritto al lavoratore della contestazione relativa al comportamento illegittimo: tale comunicazione deve avvenire tempestivamente rispetto ai fatti, in modo da dare al dipendente la possibilità di difendersi. La contestazione deve contenere la manifestazione non equivoca dell’intenzione del datore di lavoro di considerare le circostanze addebitate come illecito disciplinare;

  • entro 5 giorni dalla contestazione, il lavoratore può produrre le proprie difese e controdeduzioni in forma scritta o orale. La sanzione disciplinare irrogata senza l’audizione orale eventualmente richiesta dal lavoratore è illegittima per violazione di norme imperative di legge;

esperita validamente la procedura disciplinare, il datore di lavoro può intimare il provvedimento sanzionatorio.

- articolo estratto da "LLpT -la Legge per tutti" - 26/05/2016

 

mercoledì 25 maggio 2016


Omicidio stradale e uso dei cellulari

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L’uso di telefoni cellulari alla guida è da sempre una delle più frequenti cause di incidenti stradali. Uno strumento per accertare l’eventuale utilizzo è l’analisi delle celle telefoniche.

 Un attimo di disattenzione, uno squillo sul cellulare, un suono inaspettato e una distrazione potrebbe risultare fatale: l’uso dei telefonini mentre si è alla guida è una delle maggiori cause di incidenti stradali e una delle fattispecie poste a fondamento del nuovo reato di omicidio stradale, recentemente inserito nel nostro ordinamento [1].

 Il nuovo reato di omicidio stradale
Secondo le nuove disposizioni è infatti punito a titolo di omicidio stradale colposo il guidatore che causa la morte di una persona in seguito alla violazione di una norma sulla circolazione stradale o perché si è messo alla guida in stato di ebbrezza alcolica grave o in stato di grave alterazione data dall’assunzione di sostanze stupefacenti.

Lo stato di ebrezza o di alterazione può essere meno grave e comunque configurare il reato in esame nel caso in cui si tratti di soggetti che svolgono come lavoro l’attività di trasporto di persone o cose.

Lo stato di ebrezza non grave è punito, in maniera più lieve, se il conducente ha superato determinati limiti di velocità, abbia attraversato un semaforo nonostante fosse accesa la luce rossa, abbia circolato contromano, abbia effettuato sorpassi pericolosi o inversioni nelle vicinanze di incroci, curve o dossi.

Appare pertanto evidente come il nuovo reato vada a punire i casi di eccessivo utilizzo di alcool e di uso di sostanze stupefacenti ma anche i casi di disattenzione e negligenza, più o meno gravi, che comunque provochino la morte di un soggetto.


Il traffico dati e l’analisi delle celle telefoniche

In caso di incidente stradale, uno dei primi passi compiuti dalle Autorità competenti è il sequestro dei telefoni dei soggetti coinvolti per poter poi disporre accertamenti specifici al fine di verificare se e in che modo l’incidente può esser stato causato dall’utilizzo del cellulare.

Gli operatori, infatti, mantengono sia i dati relativi al traffico telefonico sia quelli riguardanti il traffico telematico. In questo modo è possibile tracciare l’accesso alla “rete dati”, potendo così monitorare la consultazione della posta elettronica e dei social network.

Infatti, se è possibile comunque utilizzare il telefono nel rispetto del codice della strada mediante l’utilizzo di strumenti come l’auricolare o il vivavoce, non è in alcun modo possibile scrivere messaggi o mail o accedere ai social network in quanto questo comporterebbe una distrazione, dovendo necessariamente distogliere lo sguardo dalla strada e lasciare, anche se con una sola mano, la presa del volante.

- articolo estratto da "LLpT -la Legge per tutti" - 24/05/2016

martedì 24 maggio 2016


Controlli sul dipendente assente per malattia o permessi


La Cassazione ha sdoganato definitivamente i controlli segreti, a mezzo di pedinamenti con investigatori privati, dei dipendenti assenti per malattia o per utilizzo dei permessi.

 È possibile controllare di nascosto il dipendente che prende qualche giorno di permesso o che certifica la malattia, ma poi impegna il proprio tempo libero per altre attività: l’azienda lo può far pedinare da un investigatore privato durante l’arco della giornata “privata” (o della notte), senza perciò né ledere la sua privacy, né violare le regole imposte dallo Statuto dei Lavoratori. Il datore di lavoro, che pertanto sospetti le bugie o l’utilizzo illegittimo dei giorni di assenza dal lavoro, può dare il via tranquillamente ad appostamenti, registrazioni e scatti fotografici anche a mezzo di detective. A dirlo è la Cassazione con una sentenza della scorsa settimana [1] che, di certo, metterà in allarme i dipendenti dal “permesso facile”.

  Ormai la giurisprudenza ha assunto un’interpretazione restrittiva sull’uso dei permessi e dei giorni di malattia. Quanto ai primi, ad esempio, è stato ritenuto legittimo il licenziamento di chi utilizza, per scopi personali, anche una breve parte della giornata che invece dovrebbe essere sfruttata per l’assistenza al familiare invalido (nel caso dei permessi della legge 104), così come è stato ritenuto illegittimo il comportamento del lavoratore che sfrutti il congedo parentale per fare un ponte o una gita e non, invece, per le finalità familiari per cui è proprio.

 Rigido è anche l’orientamento in tema di malattia: se è vero che il lavoratore ha l’obbligo di farsi trovare a casa per la visita fiscale e che, fuori dalle fasce di reperibilità, può anche uscire dal proprio domicilio, è tuttavia anche vero che il suo comportamento non può mai pregiudicare la pronta guarigione e l’immediato rientro nel lavoro. Per cui, se il dipendente in malattia viene colto a svolgere attività incompatibili con la convalescenza, il licenziamento è più che legittimo.

 Lo Statuto dei lavoratori non accorda una tutela ad oltranza del dipendente, anche al di fuori del luogo di lavoro e, soprattutto, nel caso di comportamenti che possano ledere quel “minimo etico” previsto dalla legge o che si concretizzino in un reato (ad esempio, secondo la Cassazione l’utilizzo dei permessi 104 per fini personali è un illecito penale). Dunque, non c’entra nulla la tutela della libertà e dignità del lavoratore con la possibilità, per l’azienda, di delegare apposite persone (detective e agenzie investigative) a difesa dei propri interessi e, cioè, per scopi di tutela del patrimonio aziendale e di vigilanza dell’attività lavorativa. Secondo i giudici supremi, il datore di lavoro ha il potere di ricorrere alla collaborazione di soggetti esterni, diversi dalla guardie particolari giurate, per controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti.

Certo, l’agenzia investigativa non potrà in nessun caso svolgere controlli sulla qualità del lavoro, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione. Dette agenzie, per operare lecitamente, non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dallo Statuto dei lavoratori, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Il loro intervento deve essere limitato solo alla prevenzione e/o punizione di illeciti, anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione.

C’è da dire, in ultimo, che sul piano processuale, il report scritto del detective non ha valenza di prova documentale, così come non lo hanno le fotografie se contestate dal lavoratore con una valida motivazione (e non genericamente). Ma ben può aprirsi la porta alla prova testimoniale dell’investigatore medesimo che, così, potrà riferire al giudice quanto visto con i propri occhi. Il che, ovviamente, sarà un punto a sfavore del dipendente bugiardo.
- articolo estratto da "LLpT -la Legge per tutti" - 20/05/2016

giovedì 12 maggio 2016


Voucher babysitter, come ottenere il bonus, le istruzioni

Nuove istruzioni dell’Inps sull’utilizzo e l’attivazione dei voucher per l’erogazione dei servizi di baby sitting al posto del congedo parentale.

 È operativa, sul sito dell’Inps, la procedura per l’attivazione ed il pagamento dei voucher babysitter: si tratta di una misura introdotta dalla Legge Fornero di riforma del mercato del lavoro [1], nell’ambito della conciliazione famiglia-impiego, erogata dall’Istituto al posto del congedo parentale.

In pratica, anziché fruire del congedo parentale (o maternità facoltativa), interamente o parzialmente, la lavoratrice ha la facoltà di richiedere all’Inps dei buoni lavoro, per pagare un servizio di baby sitting.

I voucher possono essere richiesti sia dalle lavoratrici dipendenti, che dalle parasubordinate (cococo) e dalle libere professioniste, hanno un valore pari a 600 euro mensili e sono erogabili per un massimo di 6 mesi (3 per le lavoratrici autonome).

Voucher baby sitting: come si ottengono

La lavoratrice, dopo aver effettuato l’apposita domanda di beneficio all’Inps ed aver ricevuto il provvedimento di accoglimento (si veda, a questo proposito: Voucher babysitter, istruzioni e domanda), per ottenere i bonus deve effettuare i seguenti passaggi fondamentali:

 – entrare nel sito dell’Inps e registrarsi come committente;

accreditare, sempre nel sito dell’Inps, il prestatore di lavoro (cioè la babysitter) e richiedere l’attivazione dell’Inps card presso l’Ufficio postale;

– comunicare all’Inps la prestazione lavorativa;

– effettuare la consuntivazione dei voucher al termine della prestazione (precisando se il pagamento degli stessi deve avvenire con scomputo dal bonus o con altri mezzi, nell’eventualità che si ricorra già a prestazioni di lavoro accessorio per altri motivi).

 Per ottenere il bonus, la lavoratrice madre, munita di PIN, carta nazionale dei servizi o identità digitale SPID, deve:

– accedere alla procedura per l’assegnazione del bonus, tramite la voce di menu “committente/datori di lavoro”, presente nel menù delle funzionalità del lavoro accessorio;

– scegliere di agire come committente/persona fisica;

– entrare in possesso del bonus, tramite la voce “appropriazione bonus”: in questo modo il bonus andrà a far parte dell’importo disponibile, utilizzabile per il pagamento delle prestazioni rese dalla persona che si prende cura del bambino.

Per accedere alla funzionalità e confermare l’appropriazione la madre deve inserire i seguenti dati obbligatori:

– proprio codice fiscale;

– codice fiscale del bambino;

– numero di domanda;

– anno di riferimento.

 La lavoratrice deve procedere all’appropriazione del bonus nel termine di 120 giorni dalla ricevuta di accoglimento della domanda da parte dell’Inps: se l’appropriazione non è effettuata entro tale termine,  il bonus si intende rinunciato.

 Restituzione bonus
Se la lavoratrice, che ha già effettuato l’appropriazione, non ha usufruito di una o più mensilità, è tenuta a restituirle entro 24 mesi, attraverso la funzionalità “restituzione bonus”.

Per accedere alla funzionalità deve inserire i seguenti dati obbligatori:

– proprio codice fiscale;

– codice fiscale del bambino;

– numero di domanda;

– anno di riferimento.
 
Attivazione e pagamento voucher: la procedura
La procedura di acquisto, attivazione e consuntivazione voucher è piuttosto articolata: per i dettagli, si veda il nostro vademecum: come attivare i buoni lavoro.

- articolo estratto da "LLpT -la Legge per tutti" - 11/05/2016

mercoledì 11 maggio 2016


Addio Tfr, quali benefici per la pensione futura?


Devoluzione obbligatoria del Tfr ai fondi pensione: vale la pena di rinunciare alla liquidazione per integrare il futuro trattamento?

 In questi giorni si discute parecchio sull’Ape, l’anticipo pensionistico, ma non bisogna dimenticarsi che un altro importantissimo provvedimento è allo studio: la devoluzione obbligatoria del trattamento di fine rapporto, il Tfr, ai fondi pensione.

Per chi ha il cosiddetto “posto sicuro” può sembrare che la questione abbia poca rilevanza: in azienda o presso un fondo, si tratta di una somma al di fuori della disponibilità del dipendente. Tuttavia, la rilevanza c’è ed è significativa: in primo luogo in quanto sono sempre di meno, specie nel settore privato, i dipendenti ad avere il “posto sicuro”, quindi ritrovarsi, al momento della perdita dell’impiego, senza la disponibilità della liquidazione è un problema non da poco.

In secondo luogo, devolvere il Tfr a un fondo significa non avere la possibilità di ottenerlo in busta paga, per chi ha necessità di un’integrazione dello stipendio.

Terzo e non ultimo, emerge la problematica in capo alle aziende, che si ritrovano private di una grossa parte della loro liquidità.

Dall’altra parte della “bilancia”, però, abbiamo un aumento della pensione per i dipendenti, grazie alla devoluzione del Tfr alla previdenza complementare: ma quest’integrazione è davvero necessaria? Comporta benefici tangibili o trascurabili?
  

Pensione: calcolo contributivo e retributivo

Per rispondere alle domande, è prima necessario capire qual è la differenza, “in soldoni”, tra un trattamento calcolato col metodo retributivo ed uno calcolato interamente col contributivo.

Il retributivo, il vecchio metodo utilizzato per il calcolo della pensione (lo possono utilizzare sino al 31 dicembre 2011 coloro che hanno più di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, e sino al 31 dicembre 1995 coloro che alla stesa data ne hanno meno), si basa sugli ultimi stipendi e sulle settimane di contribuzione versate.
Facciamo un esempio, semplificando con estrema sintesi il calcolo:
 – la media degli ultimi stipendi di Tizio è pari a 30.000 euro;
– Tizio ha versato 40 anni di contributi;
– moltiplicando gli anni di contribuzione per il coefficiente del 2%, Tizio ottiene l’80% dell’ultimo stipendio, come assegno di pensione, dunque 24.000 euro.

 Il calcolo retributivo, in realtà, è molto più complesso e si basa su due quote, la A (che tiene  conto degli ultimi 5 anni di stipendio e delle settimane di contributi versati al 31 dicembre 1992) e la B (che tiene conto degli ultimi 10 anni di stipendio e delle settimane di contributi versati al 31 dicembre 2011, per chi ha oltre 18 anni di contribuzione versata al 31 dicembre 1995, o sino a tale ultima data, per chi ne possiede di meno). Entrano poi in gioco le rivalutazioni di tutti gli stipendi presi in considerazione. Per approfondimenti: Calcolo della pensione, come si fa.

Molto meno vantaggioso è, invece, il calcolo contributivo, che si basa sulla contribuzione versata nell’arco della vita lavorativa, accantonata e rivalutata (con tassi di rivalutazione molto più bassi rispetto a quelli utilizzati per il retributivo, in quanto ci si basa sulla variazione quinquennale del Pil nominale), trasformata in pensione da un coefficiente che aumenta in base all’età.

 Calcolo contributivo: confronto con la pensione retributiva
Per comprendere meglio la differenza, prendiamo a riferimento lo stesso lavoratore ed ipotizziamo che il suo stipendio sia stato pari a 15.000 euro nei primi 10 anni, pari a 20.000 dal 10° al 20° anno, pari a 25.000 dal 20° al 30°, poi pari a 30.000 euro negli ultimi 10 anni (rispecchiando così la proiezione appena vista relativamente al calcolo retributivo).

Il lavoratore ottiene (ipotizzando una contribuzione annua, per tutti gli anni, pari al 33%) un montante contributivo non rivalutato di 297.000 euro ed un montante rivalutato (ipotizzando una rivalutazione minima ed una crescita zero) di 330.000 euro.

Ipotizzando che Tizio si pensioni a 67 anni, con un coefficiente di trasformazione del 5,7%, ottiene un trattamento pari a 18.810 euro: oltre 5.000 euro in meno all’anno.

Ma la proiezione potrebbe essere molto peggiore di così, se consideriamo che periodicamente vengono abbassati i coefficienti di trasformazione: se, ad esempio, in futuro il coefficiente per chi i 67enni fosse abbassato al 5%, la pensione spettante sarebbe pari a 16.500 euro, con una perdita di oltre 2.000 euro.

  Calcolo della pensione: cosa cambia con la devoluzione del Tfr?
Se, invece, ipotizziamo, prendendo come riferimento il primo calcolo contributivo effettuato, di integrare tutte le retribuzioni col Tfr (pari al 6,91% dello stipendio annuo), otteniamo un montante non rivalutato pari a circa 317.500 euro che, con le rivalutazioni, si avvicinerebbe ai 360.000. La pensione, considerando il coefficiente attualmente vigente per i 67 anni, sarebbe dunque pari a 20.520 euro annui. Un’integrazione non enorme, ma che comunque può aiutare.

Certo le proiezioni sarebbero migliori considerando una crescita come quella ipotizzata dall’Inps nella busta arancione, ma è assai improbabile, visto il perdurare della crisi attuale, che in futuro possa ipotizzarsi uno scenario simile.

La futura pensione potrebbe essere più alta, sicuramente, effettuando dei versamenti volontari ulteriori rispetto alla devoluzione del Tfr: ad esempio, versando ogni anno 2000 euro, nella precedente proiezione, si otterrebbe un montante non rivalutato di 344.000 euro circa e, rivalutato, pari a quasi 390.000 euro, con una pensione, dunque, di 22.230 euro, molto più vicina alla vecchia pensione retributiva.

La previdenza complementare è dunque utile e necessaria, ma in pochi possono permettersi un’integrazione consistente, pertanto la devoluzione del Tfr è un buon aiuto, in questo senso.

Restano, però, i problemi principali, come la discontinuità nella carriera lavorativa, l’esiguità del reddito, l’innalzamento infinito dell’età della pensione: questioni che, sommate insieme, demotivano i giovani non solo al versamento dei contributi integrativi, ma anche di quelli obbligatori.

- articolo estratto da "LLpT -la Legge per tutti" - 09/05/2016

 

 

martedì 10 maggio 2016


Busta arancione: tutti costretti a integrare la pensione?


 
Adesione ai fondi di previdenza complementare:  integrazione della pensione, devoluzione del TFR, agevolazioni fiscali, convenienza.

 L’Inps, con l’arrivo della busta arancione, ha “scoperto le carte” e mostrato a milioni di italiani quale sarà la loro futura pensione: non molto alta, purtroppo, specie per coloro a cui mancano diversi anni alla quiescenza.

Se si considera, poi, che le previsioni sono effettuate in uno scenario ottimistico, ipotizzando la continuità lavorativa ed un incremento di Pil e stipendio costante, ci si rende conto che il futuro trattamento potrebbe calare anche di migliaia di euro, rispetto a quello previsto dall’Inps.

Per questo, in molti stanno iniziando a “correre ai ripari” e ad aderire a fondi di previdenza complementare per integrare la futura pensione. Ma questi fondi convengono davvero? Quali sacrifici richiedono? Si può dedurre dal reddito quanto versato?

Facciamo un breve punto della situazione, per dare una risposta ai principali dubbi in merito.

 
Previdenza complementare: di quanto è integrata la pensione?

L’adesione a un fondo integra il futuro assegno di pensione in maniera variabile. Dipende, ovviamente, da quanto versato ogni mese e dagli anni di adesione al fondo.

Secondo recenti stime della società Epheso, ad esempio, per un dipendente con reddito pari a 24.000 euro annui, che versa l’1% del reddito alla previdenza complementare e che vi destina il Tfr, con 35 anni di versamenti guadagna un tasso di sostituzione stipendio-pensione di quasi il 18%. Per essere più chiari, se la pensione corrisponde al 75% dell’ultimo stipendio, con l’aggiunta della pensione complementare si arriva a un reddito pari al 93% dell’ultimo stipendio.

Le stime si abbassano al calare degli anni di adesione al fondo: per esempio, lo stesso lavoratore, se effettuasse versamenti nel fondo per 30, anziché per 35, pur destinando il Tfr otterrebbe un tasso di sostituzione del 15%.

Il tasso di sostituzione crolla se non si destina il Tfr alla previdenza complementare: il medesimo lavoratore preso come riferimento, se decidesse di destinare alla previdenza non l’1 ma il 2% del reddito, senza vincolare, però, la liquidazione, otterrebbe un tasso di sostituzione che non arriverebbe al 5%.

 Calcolo pensione complementare

La previdenza complementare non prevede un rendimento uguale per tutti, ma questo varia a seconda del fondo al quale si aderisce, in base agli impieghi delle risorse: in pratica, il sistema ha un funzionamento analogo a quello previsto nel sistema contributivo di calcolo della pensione, basandosi sui contributi accantonati e rivalutati secondo il tasso di rendimento del fondo (nel contributivo la rivalutazione si basa sulla variazione quinquennale del Pil nominale).

Dal 2007 non si può più aderire ai fondi a prestazione definita, la cui pensione è erogata in percentuale sull’ultima retribuzione (con un funzionamento analogo al calcolo retributivo o reddituale, il cui trattamento si basa sugli ultimi redditi percepiti).

I fondi attuali sono, invece, detti a contribuzione definita, poiché stabiliscono un contributo fisso, mentre a variare in base ai rendimenti ed all’ammontare dei versamenti è la pensione.

Al contributo fisso può aggiungersi la destinazione del Tfr, che in base alle nuove norme può essere totale o parziale: se totale, corrisponde al 6,91% della retribuzione. Se, però il lavoratore sceglie di destinare il TFR alla previdenza complementare,  non può più mantenere la liquidazione in azienda e, cambiando lavoro, potrà solo scegliere a quale fondo destinare il TFR.

Oltre al Tfr, si può aggiungere anche una quota integrativa pagata obbligatoriamente o volontariamente dal datore di lavoro: il versamento è obbligatorio se previsto nel contratto collettivo applicato, diversamente avviene dietro libera scelta dell’azienda.

 Benefici fiscali pensione complementare

Nel calcolare la convenienza nell’adesione a un fondo di previdenza complementare, non si può non tener conto della rilevanza degli sgravi fiscali.

Nel dettaglio, le agevolazioni previste sono:

– deduzione dal reddito pari a un massimo annuo di 5.164,57 euro, a prescindere dal fondo al quale si è aderito; l’importo eventualmente non dedotto dà origine ad una quota di pensione o di prestazione in capitale esclusa da tassazione, oppure si può utilizzare nei 20 anni successivi, nel caso dei lavoratori con prima occupazione successiva al 1° gennaio 2007 (in questo caso l’ammontare non dedotto si può utilizzare fino alla differenza tra l’importo di 25.822,85 euro e i contributi effettivamente versati);

– tassazione dei rendimenti nella misura del 20% annuo (misura che dovrebbe essere ridotta dalla riforma della previdenza complementare attualmente allo studio);

– tassazione agevolata al momento dell’erogazione della pensione o del capitale maturato: è applicata una tassazione agevolata massima del 15% che può essere ridotta dello 0,30% per ogni anno di iscrizione successivo al 15° fino al raggiungimento di una tassazione finale minima del 9%.

 Possono inoltre essere dedotti i contributi versati per i familiari a carico, in caso di loro incapienza.

Previdenza complementare: prestazioni erogate

Le prestazioni a cui l’adesione a un fondo di previdenza complementare può dare diritto sono:

– la pensione complementare (rendita vitalizia); questa può essere liquidata:

  • alla maturazione dei requisiti di accesso alla pensione obbligatoria (anticipata o di vecchiaia), se risultano versati almeno 5 anni di contribuzione al fondo; 
  • con un anticipo di 5 anni rispetto alla maturazione della pensione principale, se l’attività lavorativa termina e il lavoratore resta disoccupato per oltre 48 mesi;

– un’erogazione effettuata sotto forma di capitale, se non si raggiungono i requisiti per la pensione, o se la prestazione pensionistica complementare annua risulta inferiore al 50% dell’assegno sociale.

 La rendita può essere reversibile, o soggetta ad incrementi al verificarsi di eventi che comportino la perdita di autosufficienza del beneficiario. Possono essere erogate anche delle anticipazioni, per diversi motivi (spese sanitarie, acquisto prima casa, formazione, ulteriori esigenze personali).

- articolo estratto da "LLpT -la Legge per tutti" - 09/05/2016

lunedì 9 maggio 2016

Le spese per la mensa scolastica sono detraibili



Le spese sostenute per la mensa scolastica possono essere oggettivamente comprese tra quelle “per la frequenza di scuole dell'infanzia, del primo ciclo di istruzione e della scuola secondaria di secondo grado”, previste dall'articolo 15, comma 1, lett. e-bis) del TUIR – e quindi detraibili - anche quando tale servizio sia reso per il tramite del Comune o di altri soggetti terzi rispetto alla scuola. Non è, quindi, necessario che il servizio di ristorazione scolastica sia deliberato dagli organi di istituto essendo istituzionalmente previsto dall'ordinamento scolastico per tutti gli alunni delle scuole dell'infanzia e delle scuole primarie e secondarie di primo grado. Ai fini della detrazione, la spesa può essere documentata mediante la ricevuta del bollettino postale o del bonifico bancario intestata al soggetto destinatario del pagamento - sia esso la scuola, il Comune o altro fornitore del servizio - e deve riportare nella causale l'indicazione del servizio mensa, la scuola di frequenza e il nome e cognome dell'alunno. Se per l'erogazione del servizio è previsto il pagamento in contanti o con altre modalità (ad esempio, bancomat) o l'acquisto di buoni mensa in formato cartaceo o elettronico, la spesa potrà essere documentata mediante attestazione, rilasciata dal soggetto che ha ricevuto il pagamento o dalla scuola, che certifichi l'ammontare delle spesa sostenuta nell'anno e i dati dell'alunno o studente. Tale attestazione, rilasciata dalla scuola o dal soggetto erogatore del servizio di mensa, rientra nell'ambito della previsione di esenzione dall'imposta di bollo di cui all'articolo 5, comma 1, della Tabella annessa al DPR n. 642 del 1972. Si precisa, inoltre, che anche l'istanza presentata dal genitore per la richiesta dell'attestazione in commento è esente dall'imposta di bollo, ai sensi dell'articolo 14 della citata Tabella che espressamente prevede l'esenzione dall'imposta per le “Domande per ottenere certificati ed altri atti e documenti esenti dall'imposta di bollo…”. Si rammenta, infine, che sui documenti rilasciati in esenzione dal pagamento del tributo di bollo è necessario indicare l'uso per il quale gli stessi sono destinati. Per l'anno d'imposta 2015, se la documentazione risulta incompleta, non essendo state fornite istruzioni in proposito, i dati mancanti relativi all'alunno o alla scuola possono essere annotati dal contribuente sul documento di spesa. Si evidenzia, inoltre, che la detrazione spetta al genitore al quale è intestato il documento comprovante la spesa e che nel caso in cui il documento sia intestato al figlio, la detrazione spetta ad entrambi i genitori nella misura del 50 per cento ciascuno. Considerato, tuttavia, che ai fini della detrazione è necessario che gli oneri siano rimasti effettivamente a carico del contribuente, nel caso in cui la spesa sia stata sostenuta da uno solo dei genitori o da entrambi in percentuali diverse dal 50 per cento, nel documento comprovante la spesa deve essere annotata la percentuale di ripartizione della spesa medesima. 
(Fonte: Agenzia delle Entrate)


venerdì 6 maggio 2016


Inps: parto prematuro – la nuova disciplina




aprile 29

Con la circolare n. 69/2016, l’Inps fornisce le istruzioni operative relative alla nuova disciplina – introdotta dal D.Lgs. 80/2015 – in tema di parto prematuro, considerato nell’accezione che vedremo in seguito.

La suddetta norma, la quale riguarda le lavoratrici dipendenti e quelle iscritte alla Gestione separata, disciplina casi di parti prematuri (da intendersi “fortemente” tali) che si verificano prima dei 2 mesi antecedenti alla data presunta del parto e rispetto ai quali la disciplina previgente prevedeva un congedo di maternità coincidente con i 5 mesi successivi al giorno del parto.

Ora, nei suddetti casi, il congedo si calcola aggiungendo ai 3 mesi dopo il parto tutti i giorni compresi tra la data del parto prematuro (inteso nell’accezione di cui sopra) e la data presunta del parto, risultando così di durata complessivamente maggiore rispetto al periodo di 5 mesi precedentemente previsto.

L’Istituto specifica che la riforma in commento non comporta variazioni nei casi in cui il parto prematuro si verifichi all’interno dei due mesi ante partum, ossia quando il congedo obbligatorio ante partum è già iniziato.

La nuova disciplina si applica agli eventi coincidenti o successivi alla data del 25 giugno 2015.

Tuttavia, come precisa l’Istituto, per i parti che si sono verificati in data anteriore alla data del 25 giugno 2015, e il cui congedo post partum non si era ancora concluso alla data stessa, è possibile riconoscere l’indennità di maternità anche per gli ulteriori giorni di congedo, a condizione che la lavoratrice si sia effettivamente astenuta dal lavoro nei giorni indennizzabili.

Nelle more della creazione di una nuova applicazione, le domande di maternità/paternità relative a parti fortemente prematuri (esempio 1) vanno presentate in modalità cartacea, insieme al certificato medico di gravidanza, alla Sede INPS competente, oppure inoltrate alla Sede stessa tramite raccomandata A/R. Per tali domande è utilizzato il mod. SR01 reperibile sul sito www.inps.it, sezione “modulistica”.

Nella circolare in commento sono presenti anche le istruzioni relative al rinvio e sospensione del congedo di maternità in caso di ricovero del neonato o del minore adottato/affidato.

 

- articolo estratto da "7 Grammi di lavoro.com" - 29/04/2016