Si
può vendere un cibo scaduto?
Il supermercato può vendere
un alimento scaduto, purché non sia deteriorato e ancora in ottime condizioni.
Purché sia in ottime condizioni e non
deteriorato, un alimento scaduto può essere ancora venduto. O meglio, se
si vende non si commette alcun reato. Occhio quindi a guardare la data
riportata sul retro della confezione perché, se solo a casa ci accorgiamo che è
ormai passato il giorno entro cui il produttore consiglia il consumo del
prodotto, sarà più difficile ottenere la restituzione dei soldi spesi
al supermercato. Possibile? Sì, se a dirlo è la Cassazione. E la sentenza
è anche piuttosto recente: lo scorso 13 settembre i giudici supremi [1] hanno
sdoganato la vendita di alimenti scaduti purché non deteriorati. Il
tutto, peraltro, in un periodo in cui si parla già tanto di lotta agli sprechi alimentari.
La vicenda
La
vicenda vede coinvolto un venditore ambulante che aveva consegnato un pacco di
patatine fritte in busta chiusa a due carabinieri. Questi ultimi si
accorgevano, dopo qualche passo, che la confezione riportava una data di
scadenza ormai superata. E subito elevavano un verbale al commerciante,
ritenuto cosciente di avere messo in vendita «sostanze non genuine» facendole
passare come «genuine». Secondo i giudici, il commerciante, pur consapevole che
le «confezioni di patatine» erano scadute, aveva preferito continuare a tenerle
in bella mostra per i clienti.
Sì alla vendita dei
prodotti alimentari non deteriorati ma scaduti
Secondo
la Cassazione il superamento della data di scadenza non è necessario per
determinare un cattivo alimento. Ben si può mangiare una patatina fritta, un
pacco di pasta o anche una confezione di formaggio se la scadenza è già
sopraggiunta. L’importante è che l’alimento non sia stantio, degradato o
deteriorato.
In generale, la
messa in vendita di prodotti scaduti di validità integra un reato, anzi un
reato particolarmente grave, trattandosi di delitto punito dal codice penale [2].
Ma ciò solo qualora sia concretamente dimostrato che la singola merce abbia perso
le sue qualità specifiche: difatti il semplice superamento della data di
scadenza dei prodotti alimentari non comporta, necessariamente, la perdita di
genuinità degli stessi.
La sentenza
Corte di Cassazione, sez. III Penale,
sentenza 13 luglio – 20 settembre 2016, n. 38841
Presidente Andreazza – Relatore Scarcella
Ritenuto in fatto
Con sentenza emessa in data 14/10/2015,
depositata in data 28/10/2015, la Corte d’appello di Lecce, decidendo in sede
di annullamento con rinvio disposto da questa Corte con la sentenza n.
29751/2014, in riforma della sentenza del Tribunale di Taranto dei 24/05/2013,
appellata dall’imputato, dichiarava non doversi procedere nei confronti di
C.L. in ordine al reato di cui all’art. 5, lett. b), della legge n. 283 del
1962 (capo a), perché estinto per prescrizione, rideterminando per l’effetto la
pena, in relazione al reato di cui all’art. 516 cod. pen. (capo b), la pena in
gg. 20 di reclusione, confermando nel resto l’appellata sentenza che lo aveva
riconosciuto responsabile per fatti commessi in data 8/02/2009.
Ha proposto ricorso C.L. a mezzo del
difensore fiduciario – cassazionista, impugnando la sentenza predetta con cui
deduce un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari
per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Deduce, con tale unico motivo, il
vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., in relazione
all’art. 516 cod. pen. e correlato vizio di carenza della motivazione.
In sintesi, la censura investe
l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, la sentenza sarebbe
censurabile perché carente di motivazione sia in relazione alla presunta non
genuinità della merce contestata, sia in relazione alla condotta di messa in
vendita; si sarebbe resa indispensabile una più approfondita motivazione per
appurare se e come lo stato di non perfetta conservazione potesse avere inciso
sulla genuinità del prodotto stesso; non vi sarebbe in atti alcuna elemento da
cui evincere che la merce fosse destinata alla vendita e/o comunque alla
distribuzione.
Considerato in diritto
II ricorso dev’essere dichiarato
inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
Ed invero, la Corte d’appello motiva su
ambedue i profili di doglianza in maniera adeguata ed immune da vizi logici,
evidenziando che, come emerso dalle dichiarazioni dei due carabinieri che avevano
acquistato due buste di patatine scadute di validità, il prodotto aveva perduto
le qualità essenziali (freschezza e fragranza) sicché sussistevano le
condizioni per la configurabilità del reato in questione. Sul punto pacifico è
l’orientamento di questa Corte, autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite,
secondo cui la messa in vendita di prodotti scaduti di validità integra il
delitto di cui all’art. 516 cod. pen. (vendita di sostanze alimentari non
genuine come genuine) solo qualora sia concretamente dimostrato che la singola
merce abbia perso le sue qualità specifiche, atteso che il superamento della
data di scadenza dei prodotti alimentari non comporta necessariamente la
perdita di genuinità degli stessi (Sez. U, n. 28 del 25/10/2000 – dep. 21/12/2000,
Morici, Rv. 217296). Nel caso di specie, per come emerso dalle dichiarazioni
dei due militari dell’Arma dei carabinieri – che, liberi dal servizio, avevano
acquistato le buste di patatine presso un punto vendita gestito dal ricorrente,
mentre si trovavano allo stadio -, non solo era risultato che il prodotto fosse
scaduto di validità ma, soprattutto, era stato accertato dagli stessi militari
che le patatine avevano perduto le loro “qualità specifiche”, essendo invero
indubbio che freschezza e fragranza delle patatine costituiscono qualità
specifiche che il consumatore si attende dal prodotto in questione.
Quanto, poi, all’ulteriore profilo di
doglianza, la Corte d’appello motiva sul punto indicando chiaramente che il
prodotto non genuino era chiaramente destinato al commercio, in quanto le due
confezioni di patatine erano state acquistate dai due carabinieri, liberi dal
servizio, presso il punto vendita presso lo stadio e che altre confezioni dello
stesso tipo erano presenti nei punti vendita dislocati all’interno della
struttura, punti vendita la cui gestione era riconducibile alla persona dei
ricorrente.
Con riferimento a tale motivo di
doglianza, è dunque evidente la aspecificità del medesimo, non confrontandosi
il ricorrente con la puntuale e convincente motivazione della Corte d’appello,
idonea a confutare la censura difensiva, donde la stessa si appalesa
inammissibile. Ed invero, è stato più volte affermato da questa Corte che è
inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia
generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e
ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della
necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata
e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012
– dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
II motivo si presenta, inoltre,
manifestamente infondato, atteso che la perdita delle qualità specifiche del
prodotto è stata attestata, come dianzi visto, dai due acquirenti, dovendosi
altresì evidenziare, quanto alla questione della messa in vendita dei prodotto,
che la maggiore o minore durata della detenzione, e la maggiore o minore
imminenza della vendita, sono irrilevanti ai fini della configurazione dei
reato di cui all’art 516 cod. pen., oggettivamente integrato dalla relazione
di fatto tra esercente e sostanza non genuina e soggettivamente completato
dall’intenzione di esitarla come genuina (Sez. 6, n. 5353 del 20/12/1979 – dep.
23/04/1980, Cutino, Rv. 145114).
Nessun dubbio, infine, residua quanto al
corrispondente elemento psicologico normativamente richiesto, come reso palese
dalla condotta tenuta dall’imputato al momento dei fatto, avendo questi tentato
di disfarsi, all’atto dei controllo, di alcune confezioni di patatine,
gettandole nel cestino dei rifiuti, come emerge dalla lettura dell’impugnata
sentenza.
Alla dichiarazione di inammissibilità dei
ricorso segue la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali,
nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma,
ritenuta adeguata, di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.q.m.
La Corte dichiara inammissibile il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di € 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della
S.C. di Cassazione, il 13 luglio 2016.
[1] Cass. sent. n. 38841/2016 del 13.09.2016.
[2] Art. 516 cod. pen.
- articolo estratto da "LLpT -la Legge per
tutti" - 04/10/2016